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Storia/Storia di Avenza
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La nascita del borgo di Avenza affonda le radici nella notte dei tempi. Alcuni reperti dll'epoca romana trovati in diverse epoche la fanno risalire a quel tempo, come ansio sulla via consolare Aemilia Scauri da Pisa alla vicina Luni. Certamente nel medioevo assunse una funzione importante sul territorio. L'antica città  di Luni (sotto la guida dei Vescovi Conti) si andava estinguento, e la città  di Carrara prendeva vigore con la ripresa dell'estrazione del marmo. Avenza veniva a trovarsi in un crocicchio delle strade che scendevano dalle cave allo scalo marittimo e l'antica via Romana. Quest'ultima si modificava nel tempo tagliando fuori la defunta Luni per dirigersi nettamente verso Sarzana rimanendo tuttavia una delle arterie più importanti dell'Italia Medievale come via Romea, Francigena o Francesca, vera autostrada del medioevo. Per questi motivi, malgrado le cattive condizione della piana malarica che avevano contribuito all'abbandono dell'antica Luni, il borgo di Avenza resistette in quanto centro strategico, per cui fu incastellato e munito di fortezza, e commerciale in quanto emporio delle merci imbarcate e sbarcate (non solo marmo) ed in transito sulla Romea . Qui vi si riscuoteva la gabella , come ancora testimonia il vecchio nome di via Farini. Qui si effettuava il cambio dei cavalli della stazione di posta (alla scuderia). Le origini del commercio nel borgo sono quindi collegate intimamente al concetto di Avenza figlia della strada ( o meglio delle strade).
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Storia/Storia di Avenza
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GIUSEPPE MAZZINI INCONTRA I CARBONARI DI L'AVENZA E FONDA LA "GIOVINE ITALIA" Verso la fine del 1830 accadde a L'Avenza un evento straordinario. Dopo le impiccagioni del '22 l'organizzazione Carbonara era diventata segretissima, tant'è che i seguaci del tirannico Duca nulla poterono contro i nostri. Fu così che attraverso le informazioni della Carboneria gli associati di l'Avenza ricevettero un giovane avvocato genovese. Aveva 25 anni e si chiamava Giuseppe Mazzini. Egli comprese subito che le informazioni avute erano esatte circa l'efficienza e la serietà della locale Carboneria ed espose subito agli attenti patrioti apuani il suo piano di trasformazione della Carboneria nella associazione la "Giovine Italia" che doveva preparare l'insurrezione generale contro i tiranni per raggiungere l'unità d'Italia. Ottenne un immediato entusiastico assenso ed allora espose i dettagli del suo meticoloso piano associativo. "La Giovine Italia è repubblicana perché tutti gli uomini della nazione sono chiamati per la legge di Dio ad essere liberi, uguali e fratelli. Perché repubblicane sono le nostre grandi memorie da Roma alle repubbliche marinare. La Giovine Italia è unitaria perché il federalismo la condannerebbe all'impotenza e la porrebbe sotto l'influenza straniera e riprodurrebbe situazioni medioevali tra i diversi stati federali. La Giovine Italia è basata sulla educazione del popolo rispettoso di Dio consapevole che organizzerà una guerra per bande appena scoppiata l'insurrezione. I colori della Giovine Italia saranno il bianco, il rosso e il verde, la bandiera della Nazione del popolo italiano, dal Varo al Quarnaro, dall'Alpe alla Sicilia. "Ed ora giuriamo nel nome di Dio e dell'Italia. Nel nome di tutti i martiri della santa causa italiana, caduti sotto i colpi della tirannide." "Per i doveri che legano alla terra ove Dio m'ha posto... per l'amore innato in ogni uomo, ai luoghi ove nacque mia madre e dove vivranno i miei figli... per l'odio, innato in ogni uomo al male, all'ingiustizia, all'usurpazione, all'arbitrio... per il rossore che io sento in faccia ai cittadini dell'altre nazioni, del non avere nome né diritti di cittadino, né bandiera di nazione, né patria....per la memoria dell'antica potenza.... per le lacrime delle madri italiane ... per i figli morti sul palco , nelle prigioni, in esilio .... "Io....convinto che dove Dio ha voluto fosse nazione il popolo e depositario delle forze necessarie a crearla.... dò il mio nome alla Giovine Italia e giuro di consacrarmi tutto e per sempre all'Italia, nazione una indipendente, libera e repubblicana, di uniformarmi alle istruzioni dei fratelli e di conservarne, anche a prezzo della vita, i segreti."Ora e sempre! Così giuro, invocando sulla mia testa l'ira di Dio, l'abominio degli uomini e l'infamia dello spergiuro, s'io tradissi in parte il mio giuramento."I carbonari di L'Avenza che già si erano bene organizzati, dopo l'affiliazione nella Giovine Italia, infiammati ancor più da Giuseppe Mazzini divennero in gran segreto un piccolo esercito pronto all'azione al momento decisivo che si avvertiva prossimo. Mazzini fu entusiasta di loro e negli anni soleva ricordarli a mo' di esempio. Dopo l'incontro di L'Avenza Mazzini dovette riparare dapprima a Marsiglia, poi in Svizzera ed infine a Londra.Benché in esilio e con gli scarsi mezzi di comunicazione di allora era il 1831 - giorno dopo giorno, ora dopo ora dedicò tutta la sua vita ad incitare tutti gli italiani all'unità della Nazione. Il suo grande merito fu quello di aver presentato all'Europa e al mondo il problema Italia che fino a quel momento era considerata terra di conquista, terra dei morti. Frattanto era salito al trono dello Stato Sardo Carlo Alberto e Mazzini gli indirizzò dall'esilio un messaggio incitandolo a lottare per l'unità d'Italia. Non ebbe risposta ed allora - era il 1832 - diffuse la Giovine Italia, l'associazione che infiammò tutta la gioventù patriottica d'Italia con quei principi che già due anni prima avevano esposto ai carbonari di L'Avenza. Trascorsero gli anni '30 con le notizie delle rivolte francesi, ora contro i Borboni ora contro gli Orléans, mentre l'opinione pubblica era sbalordita dalle conquiste della scienza e della tecnologia. Il motore a vapore aprì insperati orizzonti al progresso. Tuttavia al progresso tecnico non corrispondeva un progresso politico perché perdurava un assetto retrivo e reazionario mentre i popoli chiedevano le costituzioni democratiche. Mazzini fu condannato a morte in contumacia nel '34 dal governo piemontese, ma questo verdetto non preoccupò più di tanto i patrioti. avenzini che seguitarono a sperare nel monarca sabaudo. Anche gli anni '40 si susseguirono in una continua agitazione nella speranza dell'unità d'Italia, ma nel '44 i borbonici fucilarono presso Cosenza i due fratelli Bandiera con sei loro compagni della loro azzardata ed impreparata impresa insurrezionale. Il 23 gennaio del 1846 il tirannico Francesco IV morì e gli successe il figlio Francesco V, crudele quanto il padre. Ma i tempi erano maturi. Si avvicinava il 1848! Tratto da L'AVENZA di Aldo Cecchini
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Storia/Storia di Avenza
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Le note che seguono sono tratte da Aldo Cecchini L'AVENZA, Celani, 1988. Segretario del Comune fu eletto Desiderio Menconi, il tricolore venne innalzato sulla fortezza Castruccio. Come primo atto il Comune proclamò l'annessione del suo intero territorio allo stato piemontese chiedendone protezione. Poi abolì la tassa sul grano, la famosa tassa sul macinato e proclamò il libero Comune di L'Avenza annesso alla Patria italiana. Il Governo Piemontese aderì alla richiesta di protezione e incaricò la Sovrintendenza di polizia di Sarzana di inviare a L'Avenza un presidio di cento Reali Carabinieri. Il 10 aprile 1848 i municipi di Massa e di Carrara organizzarono con l'ausilio dei parroci una votazione per l'annessione al Granducato di Toscana. Ma il Comune di Avenza non aderì perchè rimase fedele alla sua impostazione: Carlo Alberto Re d'Italia. Il 12 maggio 1848 Leopoldo II di Toscana decretò l'annessione di Massa Carrara al Granducato, ma il territorio di Avenza era sempre presidiato dai Carabinieri piemontesi. Dopo la sconfitta di Custoza di Carlo Alberto, avvenuta il 25 luglio, tra le clausole del successivo trattato di pace, fu inserito un passo che riguardava anche Avenza: il governo piemontese dovette accettare di condividere il presidio della cittadina con i Carabinieri Toscani.
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Storia/Storia di Avenza
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QUANDO AVENZA VOLLE IL PIEMONTE Il tentativo separatista dopo la cacciata degli estensi e dei gabellieri del dazio L'intensa giornata inaugurale di studio dell'Aruntica apertasi con la dotta prolusione di Loris J. Bononi priore dell'Accademia degli Imperfetti di Fivizzano e proseguita con la gustosa relazione su Danese Cattaneo del presidente dell'Accademia dei Rinnovati di Massa Duino Ceschi, Giovanni Fantoni, Labindo, di cui abbiamo succintamente riferito, ha annoverato numerosi altri interventi. Gli aspetti delle attività artigiane e industriali a Massa e a Carrara dal 1300 al 1500, sono stati evidenziati dal presidente della Deputazione di Storia Patria Paolo Pelù. Importanza notevole in particolare ebbero la lavorazione del ferro a Pomo e a Carrara l'industria marmifera con seguenti traffici e avvicinamenti anche culturali con altre città  tra cui Prato. Le controversie, davvero poco note, che per quasi un ventennio avevano accompagnato i progetti ferroviari sotto i Duchi di Modena sono state messe in luce da Marcello Bernieri. Tra insurrezioni popolari e il sogno di un collegamento a monte tra le due città  col traforo della Foce, la complessa vicenda si chiude con la inaugurazione nel 1862 del tronco com' è attualmente, con conseguente creazione del tratto Avenza-Carrara e della stazione di San Martino il cui nome ricorda la battaglia risorgimentale che vide l'eroismo di Domenico Cucchiari attivo protagonista di questa realizzazione. Cesare Piccioli ha illustrato con competenza i caratteri della vita culturale del primo novecento: la funzione vitalizzante del Ceccardi sul manipolo della Repubblica d'Apua di cui facevano parte poeti, artisti, politici dell'area versiliese (Ungaretti,Pea, Viani, Nomellini), lunigianese (De Ambris, Formentini) e carrarese (Vico Fiaschi, Caro), nonchè i vivaci rapporti del poeta ortonovese, col gruppo fiorentino di Papini e con D'Annunzio. Una stimolante domanda: Perchè il flusso vivificante della cultura ispirata da Ceccardo Roccatagliata Ceccardi si radiò in seguito in Versilia (si pensi al famoso quarto platano del Forte. e in Lunigiana, mentre venne meno a Carrara? A un episodio poco noto della storiografia locale mettendo in risalto la pace del 1353 che ebbe risonanza nazionale e legittimò la presenza della signoria milanese in Carrara e Avenza. Il tentativo separatista del 1848 di Avenza dopo la cacciata degli Estensi è stato illustrato da Maurizio Munda. Conscia della sua importanza strategica ed economica come scalo dei marmi, forse istigata da emissari liguri, Avenza si ribellò a Carrara che con Massa aveva chiesto l'annessione alla Toscana, e cacciati i gabellieri del dazio tentò invano di unirsi al Piemonte. L'attento recupero dei detti dialettali riferiti a episodi storici costituisce un'operazione di archeologia linguistica ristabilendo la perduta connessione degli stessi coi fatti che li hanno originati o a cui sono stati applicati. Un esame rigoroso di essi con metodologie socio linguistiche permette inoltre un'approfondita conoscenza della cultura popolare e interessanti verifiche di documenti e teorie storiche. Questo l'intervento di Rosa Maria Galleni Pellegrini. Corrado Lattanzi ha relazionato sull'attività  degli architetti-scultori carraresi nei secoli 1600 -1700. Grande è il salto di qualità  dell'artista locale grazie al mecenatismo dei Cybo Malaspina che favoriscono l'incre-mento culturale e sociale. Da Carrara emigrano valenti scultori che riescono a farsi apprezzare anche nella Firenze granducale (i Tacca), a Lanmarco Laquidara, presentando un raro documento, lo studio del Milani, sull'igiene sociale in Carrara alla fine dell'800, ha evidenziato la stretta relazione e interdipendenza tra medicina e società . La precaria situazione economico-sociale della popolazione di allora ebbe pesanti risvolti sulla salute pubblica , (grande l'incidenza di traumi anche mortali e di malattie dovute a carenze alimentari e professionali, cui si aggiunsero consumi di vino da Guinness dei primati) e costituì una delle cause dei fatti del '94. Giuseppe Borgioli ha tracciato un singolare parallelismo tra la complessa figura di Romolo Murri e quella di Alfredo Bizzarri. cattolico liberale, insegnante e giornalista. Aretino di nascita, carrarese d'adozione, nei primi del novecento organizzò e diresse il Circolo di San Ceccardo, una delle tante organizzazioni cattoliche sorte in Italia in seguito alla famosa enciclica di Leone XIII, da cui poi emerse il quadro dirigente locale del partito popolare. Poi la lettura affidata alla voce suadente di Giuliana Bianchi, di alcune liriche di Francesco Dolci, membro della rinata Aruntica . Mario Laquidara ha illustrato il periodo della dominazione viscontea in Carrara, Genova (Ponzanelli, Lazzoni), a Napoli (Baratta), realizzando un'osmosi culturale che porterà , con l'importazione di modelli particolarmente partenopei ad una svolta della scultura locale. Fonte: LA NAZIONE Mercoledì 28 Giugno 1995
Venerdì 03 Giugno 2011 | 4904 hits | Stampa | PDF |  E-mail | Dati non corretti? Inviaci la tua segnalazione
Cultura/Dialetto
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'L 25 april a le San Marc a l'Avenza tant genia a l' sbarc', i vegn'n da Carara e d'n Marina po' a iè l' masesa a vend'r l' niciulina. Tanti bancheti i vend'n 'l toròn 'n t'l'cantina, 'l vin iè pogh bòn, vers la stazion a iè 'l tir a segn e 'ncim al pont a iè c'l pov'r'om con la ganba d' legn, po' aie i rop'lan e la giostra a calci 'n cui e quarchi montagnari ch'i vegn'n già col mul, da la Centrale 'nfina 'n Sravudin a s' sent sol piang'r di ninin, ch'i vog'n la tomobile o la motobicicleta a la fin soma, a i conp'r una bonboleta. A la Forteza i fan da magnar a s' sent una puza d' pesci ch'i fan argom'tar, e pur aie queli ch'i s' gonfin come taparedi e i par d'es'r a magnar un piat d' tordedi, quand i van via ien tuti sporchi ma i van da Pitoch che la i vend'n i porchi, drent al paes a s' sent un odor d' torta e un udurin d' cicia morta, c'l di lì aie tanti 'nvitati magari parenti acquistati, e dop a es'rs fati una bela magnata i fan di ruti c'al pam canonata, ma a ni è nisciun ch'i fa obiezion p'rchè iè 'l di d'la liberazion, P'r'l trafich a ni è nisciuna v'rtenza i fan pasar i camion d' drent la Venza, e cuscì 'n mez a tut la confusciòn i t' schic'n i cadi con i scarpòn, Tè t' vorà ronpri 'l mus. ma t'arman come pie p'rchè 'n t'n'sa d' chi ader 'l pè, Ma vers sera t' sen strach t' t' strufin i oci pien d' mach, e quand fariv a ca t'à la s'cena fracasata t' dic a la mogia anch p'r ogi a de pasata, basta che 'n t' n' fagh l' spazin, p'rchè a t' tòch spazar dal Vial 'n Sravudm. di GIOVANNI ALIBANI
Venerdì 03 Giugno 2011 | 6246 hits | Stampa | PDF |  E-mail | Dati non corretti? Inviaci la tua segnalazione
16. La bisca
Cultura/Dialetto
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Ma m ir un pò che fumacera c'aiè¨ drent a sta cantina, a iè d'aria tuta nera al par ch'i fag'n l' mundina. Ma nisc'un i fa pà cas p'rchè i an l' carta 'n man, e se ai ven ner 'l nas i s'l pulisc'n doman. A p'nsari propi ben al par ch'i sibin d'l m'ster, ma se 'l g'och i ni va ben i arman'n li come un p'ter. Lor ig'en di raministi ma i par'n di sc'nziati, però s'i perd'n ig'en tristi i biastim'n come arn'gati. Mò a v' mòstr i concorenti che pù o men ig'en senp'r queli, con la speranza ch'ig'en contenti se 'n t'ia lingua a ni o di peli. A 'ncuminc con Gragnan che i atach senpr tuti, e c'd'altr al sapian ig'è 'l Top, 'lre di bruti. 'L pù ganz ig'è Guido ch'i s' divert a marcar, i n' vò s'ntir dir afido quante un i dev g'ocar. Pò aie Carlo d'la bonba ch'i sta senpr zit, zit, Min'strin i ariv 'n tronba ma i arpart tut avilit. Calm, calm ig'è Penachi un oriund d' marina, ma quel ch'i pas ai cantratachi ig'è Zinghin d'la Patascina. Anch Zidò i fa i so sforzi p'r vinc'r quarchi ciculatin, ma i so progeti i vegn'n smorzi da Bruneto, Piuin. Ma a iè anch G'uvanin 'l frated d'l maestr, lu i perd da mancin e i pagh col brac destr. Mò parlan d'i spetatori ch'i vegn'n p'r v'der, s'ig'àn pov'ri o signori pur quarcò i dev'n ber. C'alnbòtigè 'Ng'oler che a Nan in da una taza, pò i dic: una a zer questa chi a nè mica guaza. A volta al ven anch 'l Leon senpr tut 'ncalcinat, i fa un pò d' confusiòn pò i va via ch'i par pagat. S'ainà tanti 'n cunpagnia a pagar i fan tir e ten, cuscì prima d'ndar via i l'apiòp'n a Malen. P'r fnir quest litrat a i vorè anch Gomera, Me ormai a son sgolai e pagat'm da bera. di GIOVANNI ALIBANI
Venerdì 03 Giugno 2011 | 6000 hits | Stampa | PDF |  E-mail | Dati non corretti? Inviaci la tua segnalazione
Cultura/Dialetto
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IL COMMIATO L'Alpe di Mommio un pallido velame d'ulivi effonde al cielo di giacinto, come un colle dell'isola di Same o di Zacinto. Il Monte Magno di più cupo argento fascia la sua piramide; il Matanna è porpora e viola come il lento fior della canna. O canneti lungh'essi i fiumicelli di Camaiore, appreso ho il vostro carme. Vedess'io rosseggiare gli albatrelli sul Monte Darme! Dal Capo Corvo ricco di viburni i pini vedess'io della Palmaria che col lutto dè marmi suoi notturni sta solitaria! Potess'io sostenerti nella mano, terra di Luni, come un vaso etrusco! In te amo il divin marmo apuano, l'umile rusco; amo la tua materia prometèa, la sabbia delle tue selve aromali, l'aquila dei tuoi picchi, la ninfea dè tuoi canali. Potesse l'arte mia, da Val di Serchio a Val di Magra e per le Pànie al Vara e al Golfo, tutta stringerti in un cerchio con l'alpe a gara! Troppo è grave al mio cor la dipartenza. Come dal corpo, l'anima si esilia dal marmo che biancheggia tra l'Avenza e la Versilia. Tempo è di morte. In qualche acqua torpente or perisce la dolce carne erbale. Strider non s'ode falce ma si sente odor letale. Díruta la Ceràgiola rosseggia, là dove Serravezza è cò due fiumi, quasi che fero sangue in ogni scheggia grondi e s'aggrumi. Sta nella cruda nudità rupestre il Gàbberi irto qual ferrato casco. Ecco, e su i carri per le vie maestre passa il falasco. Metuto fu dalla più grande falce nella palude all'ombra del Quiesa, ove raggiato di vermène il salce par chioma accesa tra cannelle di stridulo oro secco, tra pigro sparto di pallor bronzino. Su l'acqua un lampo di smeraldo, e il becco tuffa il piombino. Deh foss'io sopra un burchio per la cuora navigando, e di tifa e di sparganio carico ei fosse, e fossèvi alla prora fitto un bucranio o un nibbio con aperte ali, e vi fosse odore di garofalo nel mucchio per qualche cunzia dalle barbe rosse onde il suo succhio sì caro all'arte dell'aromatario stillasse fra l'erbame, e resupino vi giacessi io mirando il solitario ciel iacintino; e scendessi così, tra l'acqua e il cielo con l'alzaia la Fossa Burlamacca albicando qual prato d'asfodèlo la morta lacca; e traesse il bardotto la sua fune senza canto per l'argine; ed io, corco sul mucchio, mi credessi andare immune di morte all'Orco! Ma cade il vespro, e tempo è d'esulare; e di sogni obliosi in van mi pasco. Si i gravi carri lungo le vie chiare passa il falasco. Sono sì vasti i cumuli spioventi che il timone soperchiano dinnanzi e il giogo cèlano e le corna e i lenti corpi dei manzi, onde sembran di lungi per sé mossi e tra la polve aspetto hanno di strani animali dai gran lanosi dossi, dai ventri immani. In fila vanno verso Pietrasanta, strame ai presepi, ai campi aridi ingrasso. L'un carrettiere vócia e l'altro canta a passo a passo. E tutta la Versilia, ecco, s'indora d'una soavità che il cor dilania. Mai fosti bella, ahimè, come in quest'ora ultima, o Pania! O Tirreno, Mare Infero, s'accende sul tuo specchio l'insonne occhio del Faro; ti veglia e guarda con le sue tremende navi d'acciaro la Città Forte dietro il Caprione sacro agli Itali come ai Greci il Sunio; t'è scheggia della spada d'Orione il novilunio; come sia fatta l'ombra, alla tua pace verseranno lor lacrime le Atlàntidi, ti condurrà l'ignavo Artofilace l'Orse erimàntidi; s'udrà pè curvi lidi il tuo respiro solo nell'ombra senza mutamento; solo rispecchierai l'immenso giro del firmamento. O Mare, o Alpe, ed io sarò lontano con nel mio cuor la torbida mia cura! Splende la cima del mio cuore umano nell'ode pura. Ode, innanzi ch'io parta per l'esilio, risali il Serchio, ascendi la collina ove l'ultimo figlio di Vergilio, prole divina, quei che intende i linguaggi degli alati, strida di falchi, pianti di colombe, ch'eguale offre il cor candido ai rinati fiori e alle tombe, quei che fiso guatare osò nel cèsio occhio e nel nero l'aquila di Pella e udì nova cantar sul vento etèsio Saffo la bella, il figlio di Vergilio ad un cipresso tacito siede, e non t'aspetta. Vola! Te non reca la femmina d'Eresso, ma va pur sola; ché ben t'accoglierà nella man larga ei che forse era intento al suono alterno dei licci o all'ape o all'alta ora di Barga o al verso eterno. Forse il libro del suo divin parente sarà con lui, sù suoi ginocchi (ei coglie ora il trifoglio aruspice virente di quattro foglie e ne fa segno del volume intonso, dove Títiro canta? o dove Enea pè meati del monte ode il responso della Cumea?). Forse la suora dalle chiome lisce, se i ferri ella abbandoni ora ch'è tardi e chiuda nel forziere il lin che aulisce di spicanardi, sarà con lui, trista perché concilio vide folto di rondini su gronda. E tu gli parla: "Figlio di Vergilio, ecco la fronda. Ospite immacolato, a te mi manda il fratel tuo diletto che si parte. Pel tuo nobile capo una ghirlanda curvò con arte. E chi coronerà oggi l'aedo se non l'aedo re di solitudini? Il crasso Scita ed il fucato Medo la Gloria ha drudi; e, se barbarie genera nel vento nuovi mostri, non più contra l'orrore discende Febo Apollo arco-d'-argento castigatore. Ma tu custode sei delle più pure forme, Ospite. Col polso che non langue il prisco vige nelle tue figure gentile sangue. Gli uomini il tuo pensier nutre ed irradia, come l'ulivo placido produce agli uomini la sua bacca palladia ch'è cibo e luce. Per ciò dal fratel tuo questa fraterna ghirlanda ch'io ti reco messaggera prendi: non pesa: ell'è di fronda eterna ma sì leggera. Fatta è d'un ramo tenue che crebbe tra l'Alpe e il Mare, ov'ebbe il Cuor dè cuori selvaggio rogo e il Buonarroti v'ebbe i suoi furori. L'artefice nel flettere lo stelo vedea sul Sagro le ferite antiche splendere e su l'Altissimo l'anelo peplo di Nike. Altro è il Monte invisibile ch'ei sale e che tu sali per l'opposta balza. Soli e discosti, entrambi una immortale ansia v'incalza. Or dove i cuori prodi hanno promesso di rincontrarsi un dì, se non in cima? Quel dì voi canterete un inno istesso di su la cima". Ode, così gli parla. Ed alla suora, che vedrai di dolcezza lacrimare, dà l'ultimo ch'io colsi in su l'aurora giglio del mare. (Data di composizione sconosciuta) di GABRIELE D'ANNUNZIO
Venerdì 03 Giugno 2011 | 6151 hits | Stampa | PDF |  E-mail | Dati non corretti? Inviaci la tua segnalazione
Cultura/Dialetto
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Tanti ani fa, la zona ndustriale a n'esistev p'r gnent e 'ndov'mò a iè tut chi stabilimenti nozivi e pussolenti, a i er di paduli, mace e mazere che a la stata a d'er'n piene d' Lisci e d' zortede, drent ai fosòn a i er tante qualità d' pesci, i arnoc'li i cantav'n di e nota, i parev'n al s'rvizi d'la R.A.I. ma p'r lor a n'esistev ne 'l prim "l s'gònd canal, la musica ad'er senpr quela, ma a disturbarla i er'n i p'scatòri che con i lami e la nase i fev'n rassia, ma a i n'er mai tanti che a d'er come rincar un pel a un bò. Le ca, a s' contav'n con i diti, ad'er'n sparse una 'n qua e una 'n la, a d'er'n ca fate a la bòna. senza tante storie, bagn, sala e via d'scorend, p'rchè a ch'i tenpi li a ni er tut c'l'anbiziòn che a iè mò, la zenta che a i stev drent a d'er p'u che contenta. 'N t'una d" c'iè ca li, a i stev una famigia d' quatr p'rsone, Ba, Ma e dò figiòli, i vivev'n d' stenti p'rchè la terà al frutav pogh e quindi a i er pogh da ros'gar, d'nvern a d'ndev a lagh e d'stata a l' strinav nicò. 'L Ba il ciamav" n panzòn p'rchè i er smilz come una cana, però i er san come un bus'l, i avev un par d' bafi ch'i parev'n fati con la barbagia d'l granturch. Lui i viazav quasi senpr d' scalza e sot a i pè i avev la peda che an s'n' bucav nemen con la (riveda, i portav i calzòn tuti artopati, i er'n senpr queli che aia dat 'l govern 'n t'l tenp d'la guera d'l 15-18. La Ma a s' ciamav Culunbina. a d'er una dona tracognota e tonda come un rap, al portav senpr un fassolet ner 'n testa c'a si v'dev sol 'l mus e ch'i dò ucin sbatuti, a si l'zev drent quant al sufriv c'la pov'ra dona. ma a d'er tanta bòna che a n' s' lam'ntav mai p'r paura d' dar di d'spiazeri al marit e ai figiòli. I figiòli i avev'n dizot ani, i er'n z'medi, un i s' ciamav Pie e c'd'altr Batì, i avev'n una forza d'l diav'l, quand i er'n 'n t'l canp a vangar, i parev'n a scriv'r, i man'zav'n la vanga come una pena, ma quand i magnav'n. 'l tòf da la polenta i spariv 'n quatr e quatr'ot, però i n' z'rcav'n mai di licheti, i magnav'n quel ch'i trovav'n. i parev'n 'l reclam d'la saluta bianchi e rosi come fióri. Anch lor i portav'n i bafi come sopà. Una bela matina d' primavera, tuti e quatr i er'n 'n t'l canp a s'ciarar 'l granturch, 'l sol i fev luz'car le mare, 'l v'ntared i fev mòv'r le foie, i uz'din i s' dev'n adret un con d'altr come al fa i fanti a l'asilo, le borbatle tute colorate a d'svolassav'n avanti e ret e ogni tant a s' butavén 'nzim a le margheritine, ma 'l rumor d'un rop'lan i fé scunbus'lar tut c'd'armonia d' pace. Pie i s' fiso a mirar c'l mostr ch'i volav bas 'nfina a strussar le zime di piòpi, Sopà chi er una golpa vecia, i 'nmazinò sub't i p'ns'eri d'l figiòl, i z'rcò d' distrarl, ma ormai 'l z'rved d' Pie i ser fat l'idea d' piantar baraca e buratin e 'ndar 'n zerca d' far una vita p'u bela. 'Nfati, dop a qualchi mesi i partì volontari 'n t'l'aviazion con la speranza d' far f'rtuna e poter dar un aiut a i so veci che i n'an mai gudut gnent 'n vita sòa; Ma quand a s' diz 'l diav'l i vò metri 'l zanpin, a n'n'va una d' drita. Dop a una quind'zina d' di, mentr che panzòn i er a taiar 'l fen p'r le vache, i s' s'ntì ciamar da la mogia, i alzò i oci p'r r'spònd'ri, ma 'l fiat i si mosso 'n gola v'dend che 'nsema a la mògia a i er un soldat, 'n dò s'gòndi i arivò a ca, cunvint ch'i fus 'l so figiòl, ma purtrop al fu p'r lu una delusiòn v'dend che a s' tratav d'un carabigner. CI pov'r om i 'ncuminzò a tr'mar, i z'rcò d' dir quarcò al carabigner ma a ni vens fora nemen una parola. Anch c'l pov'r om 'n divisa i n' sapev p'u còs i dovev far, ma po' i dovè dari la bruta nutizia, i tirò fora una let'ra 'ndòv al dizev che Pie i er mort p'r causa d'un'ncident a d'arop'lan che Lu i viazav 'nzim. Le ult'me parole a n' le potè s'ntir ne Panzòn, ne la Culunbina, p'rchè i er'n sv'nuti 'n mez a d'ara e sol vers sera i s'arpion, ma i n'er'n p'u da v'der, i er'n 'nv'ciati almen d' zent ani. Anch' Batì i er 'rriconoscibile, ma Lu i er zòv'n e i dovev fars forza. Dop a qualchi mesi da c'l brut di, i s' trovav'n tuti e tré a far i lavori 'n t'i canpi, quand a un zert moment 'l rumor d'un arop'lan i li fé scalar come una mola. 'l so p'ns'er i 'ndè sub't al so Pie e con i lacr'mòn a i oci i s' fest'n 'l nome del padre e quand l'arop'lan i er sparii 'n zel i s'armis'n a lavorar senza dir una parola; Forse p'nsand che 'n zim a c'd'arop'lan a i potev es'ri 'l so Pie. di Giovanni Alibani
Venerdì 03 Giugno 2011 | 5698 hits | Stampa | PDF |  E-mail | Dati non corretti? Inviaci la tua segnalazione
Cultura/Dialetto
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Un tranquillo pomeriggio, nel bar di Marco d'Napulion, 'n "Savrudin", alcuni avventori giocavano a carte in mezzo a una nuvola di fumo. Selico, Babuina. Paraquì, Gineto, Gaultiero probabil- mente erano del gruppo, litigavano e si mandavano a quel paese ogni qualvolta le carte glielo permettevano... una giornata noiosa. Marco guarda i suoi clienti mentre giocano, ma il suo pensiero costante è quella bottiglia lassù in alto, quella che dopo tanto tempo è ancora da stappare. E il ricordo corre a quel giorno d'inverno; credendo di essere solo dentro il bar, il grembiule, come sempre arrotolato e infilato da una parte nella cintola, le braccia appoggiate alla macchina del caffè, gli occhi in alto a guardare quella bottiglia ingrata, aveva esclamato ad alta voce: - "S'al fuss per tè a magn'rè". La notizia che Marco parlava con le bottiglie (piene) fece il giro del paese in men che non si dica. Fu risvegliato dai suoi pensieri da una voce "fòresta", e gli sembrò che gli stesse chiedendo una informazione, guardò in faccia colui che tanto aveva osato e gli chiese di ripetere. - Le stavo chiedendo se conosce la signora Ida Braida, è tutto il pomeriggio che sto chiedendo ma nessuno mi sa dire dove abita. Il paese non è poi così grosso come è possibile che nessuno la conosca ? Marco rispose che in effetti anche lui non conosceva questa signora e che ad Avenza era molto usato il soprannome, o sapeva quello o era un problema rintracciarla, e così dicendo si rivolse verso i suoi clienti, che nel frattempo come un tutt'uno si erano zittiti e girati verso quello "straniero". 'L ragionier ripetè¨: - "Braida Ida", Ida... ci pensò su ancora qualche istante: - A n' sirà mica la Ida d'la Bastarda ? Marco pensieroso replicò: - Chi ? so ma' del Sciacal ? E', al po' esser. Lo straniero più che risentito sbottò: - Come vi permettete di offendere la Braida? E' mia parente. A questo punto il Ragionier rivolgendosi a Babuina chiese: - T'a 'ntes ? second tè, che Ida a le'? A l'ha mica un fì(d)giol chi son il piano ? -No/fu la risposta. - Adora.... a le' a là, la Ida d'la Bastarda. Lo sdegno avvampò negli occhi del malcapitato, con la voce stizzita gridò : - Vi denuncio tutti. Dovete smetterla di offendere la gente. 'L Ragionier si alzò in piedi a prendere le difese di quello sconosciuto. - la rascion... è ! Mo' a le'ora d'f n'irla. Braida Ida ha detto, (passando dal dialetto all'italiano) Braida. ripetè ancora. -Ma, so ma' (riprendendo il dialetto e rivolgendosi ai suoi compari), so ma ', chi a le' ? - "La Bastarda". Dissero in coro. Lo videro allontanarsi che lanciava tuoni e fulmini, si guardarono tutti in faccia ed 'I Ragionier parlò per tutti: - Speriamo che doman a n 'arven un 'altr. Racconto tratti dal libro "UN ZIGHININ D'L'AVENZA" scritto da FRANCO MENCONI
Venerdì 03 Giugno 2011 | 3646 hits | Stampa | PDF |  E-mail | Dati non corretti? Inviaci la tua segnalazione
Cultura/Dialetto
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L' FRED CALD Parlando di ambienti di lavoro è stato emblematico l'episodio avvenuto nella officina della segheria (di marmo) Donati. Carlo Tigneta vi lavorava come tornitore In ogni segheria esisteva una officina meccanica per il pronto intervento e la riparazione, dei macchinari atti alla lavorazione del marmo. L'officina, nella segheria di "Donati", dove lavorava Carlo d' Tigneta, con la mansione di tornitore, era l'esempio di come i padroni abbiano sempre considerato la manutenzione un male necessario, su cui non vale la pena di spendere una lira. L'officina era un capannone tutto vetrate, o per lo meno lo sarebbe stato quando in un futuro improbabile avrebbero messo i vetri. Era gennaio, uno di quegli inverni che i ricordi ci dicono freddissimi. Carlo è dietro al suo tornio, l'inseparabile "pepelina" ben calzata sulla testa, la sciarpa arrotolata attorno al volto lascia scoperto solo gli occhi, le spalle ritirate, ed ogni tanto un brivido lo scuote. Entra, in quella ghiacciaia Donati, il padrone. Questo il dialogo : -Adora Carlo, a ne propri fred.... è ? Carlo reclina un poco il capo e ripete l'ultima vocale -E'? Donati se ne va. Il mattino dopo la scena si ripete. - Adora Carlo, a ne propri fred... è ? Carlo lo guarda, reclina su un lato il capo, e : E' ? t't'sen v'nut a scaldar ? Racconto tratti dal libro "UN ZIGHININ D'L'AVENZA" scritto da FRANCO MENCONI
Venerdì 03 Giugno 2011 | 3276 hits | Stampa | PDF |  E-mail | Dati non corretti? Inviaci la tua segnalazione

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